26.:
Odorico, che maftro era di guerra, In pochi colpi a tal vantaggio venne, Che per morto lafciò Corebo in terra, E per le mie veftigie il cammin tenne. Preftogli Amor, fe'l mio creder non erra Perchè potefte giungermi, le penne, E gl' infegnò molte lufinghe, e preghi, Con che ad amarlo, e compiacer mi pieghi.
27...
Ma tutto indarno, che fermata, e certa Più tosto era morir, che fatisfarli: Poi ch' ogni prego, ogni lufinga efperta Ebbe, e minacce, e non potean giovarli, Si riduffe a la forza a faccia aperta. Nulla mi val, che fupplicando parli De la fè, ch' avea in lui Zerbino avuta, E ch' io ne le fue man m'era créduta.
28.
Poi che gittar mi vidi i preghi in vano, Ne mi fperare altronde altro foccorfo, E che più fempre cupido, e villano A me venia, come famelico orfo: Io mi difefi con piedi, e con mano, Et adopraivi fino l'ugne, e il morfo; Pelaigli il mento, gli graffiai la pelle, Con ftridi, che n'andavano a le ftelle.
29.
Non fo, fe foffe cafo, o li miei gridi, Che fi doveano udir lungi una lega, O pur ch' ufati fian correre a i lidi, Quando naviglio alcun fi rompe, o annega; Sopra il monte una turba apparir vidi, E questa al mare, e verfo noi fi piega. Beisp, Samml. 6. B.
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Ariosto. Come la vede il Bifcaglio venire, Lafcia l'imprefa, e voltafi a fuggire.
30.
Contra quel disleal mi fu ajutrice Quefta turba, Signor: ma a quella image Che fovente in proverbio il volgo dice, CADER de la padella ne le brage. Gli è ver, ch' io non fon ftata si infelice, Ne le lor menti ancor tanto malvage, Ch' abbiano violata mai perfona; Non che fia in lor virtù, nè cola buona.
3I.
Ma perchè, fe mi ferban, com' io fono, Vergine, fperan vendermi più molto. Finito è il mefe ottavo, e venne il nono, Che fu il mio vivo corpo qui fepolto. Del mio Zerbino ogni fpeme abbandono; Che già per quanto ho da lor detti accolto, M'han promeffa, e venduta a un mercadante, Che portare al Soldan mi de' in Levante,
Fortinguerra.
Vicolo Fortinguerra, cin Römer, geb. 1674, geft. 1735, schrieb ein sehr wißiges und geiftvolles Niktorgedicht, Il Ricciardetto, in dreissig Gesängen, welches unter dem verdeckten Namen des Verfaffers (Carteromaco), gedruckt wurde. Die Manier ist zwar arioßisch, aber doch auch sehr original, besonders in den epigrammatischen Wendungen, die faßt überall am Schluß der Stanzen vorkommen. Rics ciardetto ift gleichfalls einer von den Rittern Karls des Groffen, der den Sohn eines afrikanischen und sarazcnischen Königes, Scricca, erschlagen hat. Despina, des Erschlas genen Schwester, reizt ihren Vater zur Rache und zum Kriege auf, an welchem sie selbst persönlichen Antheil nimmt. Zwischen ihr und dem Ricciardetto entsteht allmählig eine gegenseitige Liebe. Endlich wird der lettre Karls Nachfolger, Scricca ein Chrißt, und Despina die Gemahlin Ricciardetto. Diesen Stof hat die reiche und sehr blühende Einbildungskraft des Dichters mit mancherlei wundervollen Nebenhandlungen zu verflechten gewußt. Die aus dem Pulci und Ariost schon bekannten Ritter, den Ros land, Rinaldo, Astolfò und Olivieri, findet man auch hier wieder; und sehr original ist der Charakter des Ferrau', eines Kriegers und wollästigen Mönchs. Man vergl. Hrn. heinse's Briefe über dieß Gedicht im Teutschen Merkur vom J. 1775, Viertelj. II. S. 15. IV. S. 33. 242. Der dort befindliche Auszug sowohl, als die deutsche Uebersetzung in Versen vom Hrn. Prof. Schmitt in Liegniß, find unvollens det geblieben. Hier ist Filomene's Geschichte, womit der fünfte Gesang anhebt.
RICCIARDETTO, Canto V. St. 150.
I.
Non fi può ritrovar al mio parere Cofa nel mondo, che più bella fia, E che ci apporti più dolce piacere,
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E fia cagion di pace e di allegria; Quanto è l'udire e il dir parole vere, Senza fofpetto d'inganno e bugia; E la data parola e stabilita Mantener anche a prezzo della vita.
Come al contrario la pace rovina E del vivere ogni ordine confonde La lingua, che col core non confina; Ed una cofa moftra, una ne afconde La veritade ell' è cofa divina, E in noi dal primo vero fi diffonde: La menzogna del diavolo è figliuola, E con effo va fempre, ovunque vola.
3.
Felici quefte felve, e quefti bofchi,
U' pefte sì crudel non giunse ancora! Qui non fi vedon lagrimofi e fofchi Occhi, che il noftro mal piangan di fuora: E il piangan folo, perchè tu il conofchi, E poi dentro del cor fefta e baldora Faccin de' mali tuoi, conforme fanno! Quelli, che in mezzo alle gran corti stanno :-
Qui non fono nè sbirri, ne notai, Nè carceri, nè funi, nè berline, Ne Fiorentini, che co' negri fai Menino i malfatori a trifto fine: Ma la fè, ch'è di lor più forte affai; Fa che niun dal giufto mai decline; E la data fra noi parola basta, Più che di protocolli una catafta.
Ma più d'ogni altro poi prezzar fi fuole La fè, che tra di lor danfi gli amanti, Che pria vedraffi fenza luce il Sole, Che paftorelle o paftori incoftanti. Niun di tradimento qui fi fuole Dal dì, dall'ora, da que' primi iftanti Che d'amarfi l'un l'altra afferma e giura. Quel folo amor fino alla morte dura.
6.
Nè a quel ch' io veggo, così bella ufanza Solamente è neile Arcade contrade; La fedeltade ancora in Perfia ha stanza, Come udirete, quando che vi aggrade, Se di narrarlo avrò tanta possanza. Le dolorofe flebili rugiade Afciugate s'avea la giovin bella, Quando che prese a dire in tal favella:
7.
In Bachia io nacqui, città ricca e vaga Che del Mar nero in fu la riva fiede; Gente di mercantar cupida e vaga La dirizza le velė, o pure il piede. La cofa mia era contenta e paga De' beni, che fortuna ci concede; Perchè di Perfia, toltine ben rari, Niuno ha più di noi terre e danari.
8.
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Me fola il genitore ebbe, e fol' io
De' giovani Perfiani era la brama; E la bellezza ancor del volto mio, Che del vero maggior dicea la fama. Accrefceva in ciafcun voglia e defio D'avermi in moglie; e ciafcedun mechiama
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